Abbiamo completamente rivisto l’articolo che avevamo
preparato per questo secondo inserimento sul portale TrevisoMTB domenica quando, al
rientro da un impegno agonistico, ci siamo imbattuti nelle operazioni di
soccorso ad un ciclista gravemente ferito dopo essere stato investito da
un’automobile. Poco prima questa ci aveva superato ad alta velocità,
infrangendo un buon numero di regole stradali. Ai nostri occhi, la
responsabilità era evidente: durante l’ennesimo avventato sorpasso, aveva
impattato con il malcapitato sportivo impegnato in una svolta a sinistra in
prossimità di un crocevia.
Ma ecco i commenti degli altri automobilisti – impegnati
un po’ a curiosare, un po’ a collaborare con le operazioni, ma soprattutto
bloccati nella inevitabile coda – offrire un punto di vista completamente
differente: "era in mezzo alla strada”,
"cosa ci faceva in un punto così veloce?”,
"a quest’ora dell’imbrunire è facile che
non sia stato visto”. Che assolve di fatto il carnefice e sposta buona
parte del peso della responsabilità sulla vittima.
Le cose sono andate
più o meno come nell'immagine iniziale
Archiviata la rabbia e la carica emozionale, non resta
che constatare un fenomeno ben noto. Categorie differenti di utilizzatori di
uno spazio sociale ristretto finiscono inevitabilmente per polarizzare le
rispettive opinioni cogliendo sistematicamente elementi che le confermano ed
ignorando con altrettanta metodicità quelli che le disconfermano. Ciò rende
difficilmente individuabile il giudizio ed evanescente la ricerca delle
attribuzioni di responsabilità e la pianificazione delle esperienze.
Ciascuno di noi, sulla strada, non guida semplicemente un
mezzo di trasporto o di divertimento ma confluisce in una categoria ed assume
regole informali (quelle inevitabilmente concesse dalle regole formali, per
quanto strette) che sono differenti – in qualche caso opposte – fra i gruppi
sociali a cui le categorie afferiscono. Ciò rende ragione dell’inefficacia dei
metodi di prevenzione degli incidenti e creazione di condizioni di sicurezza,
come dimostrato dai numeri purtroppo in significativo aumento.
Un automobilista finirà sempre per assolvere un altro
automobilista, perché con ciò assolve se stesso per i comportamenti che egli
stesso agisce. E infatti, in quella coda, a commentare in attesa di riprendere
il viaggio, erano proprio coloro che avevano agito in maniera sconsiderata alla
pari dell’investitore.
C’è da chiedersi: per quale motivo sono state create le
strade e chi definisce le regole? La risposta è evidente: le strade sono create
per collegamenti che hanno finalità commerciali e non per il loisir e le regole
sono definite da chi le utilizza per questi scopi. Le regole informali sono
fortemente condizionate da questa visione. Gli approcci che pretendono di
modificare le regole formali e informali a vantaggio di categorie deboli sono
destinate purtroppo a non avere successo. Nel primo caso ogni regola è
invalidata in mancanza di controllori (e circolando su qualsiasi strada se ne
può verificare l’effetto), nel secondo caso molte dinamiche (l’ampiezza del
gruppo, la percezione di protezione delle lamiere, la gerarchia dei rapporti di
forza e motivazioni…) finiscono per creare condizioni di insicurezza proprio
per la presunta certezza di sicurezza. Tutto ciò è sovrastato da prevalenti
visioni culturali su cui le norme hanno ben poca speranza di successo, se non in
tempi estremamente lunghi che non possiamo permetterci di attendere, se non a
costo di ulteriori sacrifici e sofferenze.
È necessario pertanto rivedere completamente l’approccio
alla sicurezza del ciclista e delle altre categorie deboli, partendo dal concetto
di "incidente”, associandolo a fenomeno sociale e svincolandolo (senza
ovviamente ignorarle) da correlazioni tecnico-ingegneristiche, più interessate
a fornire spiegazioni e responsabilità agli eventi, piuttosto che evitare che
accadano.
Creando pertanto strumenti facilmente controllabili non
basati sulla speranza (o l’imprudente certezza) che gli altri gruppi sociali
modifichino i loro.
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